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Una sanità uguale per tutti: oltre l’utopia

24 Ottobre 2025

Il recentissimo saggio di Rosy Bindi, già Ministro della Sanità e autrice dell’ultima legge di riforma del S.S.N., “Una sanità uguale per tutti – perché la salute è un diritto”, è l’occasione per una rilettura della cornice storica e politica nella quale sono maturate le riforme del S.S.N. degli anni Novanta, anni decisivi per la definizione dell’attuale assetto della sanità italiana. L’Autrice riafferma giustamente la valenza costituzionale del diritto alla salute e pone questioni di vitale importanza per la sopravvivenza di un bene comune così fondativo per la coesione nazionale quale la sanità pubblica, quasi al limite dell’utopia. Alcune riflessioni maturate in oltre 40 anni di lavoro sul campo. 

Confesso innanzi tutto che la lettura del saggio da poco pubblicato di Rosy Bindi, “Una sanità uguale per tutti – perché la salute è un diritto”, mi ha molto commosso poiché mi ha fatto rivivere un periodo cruciale in cui la combinazione tra impegno professionale e impegno politico-istituzionale in campo sanitario ha quasi totalizzato l’esperienza di vita, rendendomi un testimone privilegiato dei cambiamenti, delle riforme e delle contro-riforme (come le chiama Rosy Bindi) che hanno trasformato tra gli anni 80 e 90 la sanità italiana fino a consegnarcela per come è oggi, con l’aggiunta della decisiva riforma costituzionale in senso regionalistico del 2001. Rosy Bindi affronta tali cambiamenti con un approccio quasi epico (oltre che etico), poiché li riconduce al duro contrasto tra la visione di tipo sociale e solidale all’origine della riforma del 1978 (anno in cui nasce il Servizio Sanitario Nazionale), basata su un approccio di accesso universale per tutti alle attività di prevenzione, cura e riabilitazione, e la visione di tipo liberistico-aziendale all’origine delle riforme del ministro liberale De Lorenzo degli anni 1992 e 1993, la cui parola d’ordine fu la “aziendalizzazione sanitaria” che mette sullo stesso piano erogatori pubblici e privati quali potenziali erogatori di prestazioni sanitarie finanziati dallo Stato. Nella visione di Bindi (ma anche nella realtà) le distorsioni conseguenti dalle leggi del 1992-93 sono fermate dalla modifica del 1999 ancora oggi vigente (Bindi ne è il ministro della Sanità autore). La riforma Bindi introduce un sistema di regole, le famose “3 A” (autorizzazione, accreditamento e accordo contrattuale basato su reali fabbisogni) in grado di limitare il “far west” sanitario imperante nelle regioni, che stava portando il deficit del S.S.N. a livelli di guardia. In tutto questo, la riforma Bindi introduce i Livelli Uniformi di Assistenza, ovvero la soglia minima di servizi da garantire indistintamente a tutti i cittadini italiani, da Nord a Sud; introduce il sistema della libera professione dei medici, ponendo fine alla imbarazzante situazione degli ospedali che si svuotano alle 14 perché i medici lavorano nelle strutture private con il permesso dello Stato, premessa indispensabile per combattere efficacemente le liste di attesa. Inoltre, la riforma Bindi valorizza il ruolo dei Comuni e dei Distretti Sanitari per affermare la priorità di un servizio sanitario vicino ai cittadini nei luoghi dove essi vivono e lavorano mediante il forte impulso dato alle cure primarie. Insomma, la riforma Bindi ha plasmato profondamente la sanità italiana con una profonda coerenza ai valori costituzionali espressi soprattutto nell’articolo 32 della Costituzione. Bindi paragona l’attuale situazione della sanità italiana a quella del 1992, tracciando un parallelismo tra la privatizzazione degli anni 90 e i tentativi della attuale maggioranza di governo di introdurre improbabili nuovi meccanismi di privatizzazione quali i cosiddetti fondi sostitutivi del S.S.N., ovvero erogatori del tutto privati che affiancano il S.S.N. non per integrarne le funzioni (come avviene oggi), ma per replicarle grazie a finanziamenti privati, con lo schermo di un formidabile scudo fiscale sia per i gestori che i fruitori. Il tutto, nel bel mezzo della autonomia differenziata introdotta per legge, anche se al momento apparentemente incapace di decollare: una miscela esplosiva letale per il S.S.N. come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.

Indubbiamente i corsi e ricorsi storici e politici sono fortemente suggestivi a favore della tesi di Bindi: alla riforma del 1978 approvata dall’intero arco costituzionale (una volta si chiamava così) con qualche minima eccezione rappresentata dai partiti della destra, fecero seguito le “contro-riforme” del 1992-93 approvate dalla solida maggioranza parlamentare del “pentapartito” che oggi potremmo chiamare di centro-destra, in cui fu ministro della sanità il liberale De Lorenzo dal 1988 al 1993. Alla successiva riforma Bindi del 1999, maturata durante il governo dell’Ulivo con la presidenza di Romano Prodi, hanno fatto seguito gli ultimi 25 anni in cui è stata fortissima l’impronta della riforma regionalista voluta dal governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D’Alema. Durante tutti questi anni, la sede delle decisioni si è spostata sempre di più nella Conferenza Stato-Regioni, dove più che il contrasto destra-sinistra, è stato soprattutto il contrasto tra le Regioni (non importa di che colore politico) a determinarne l’esito. Per questo motivo, per quanto suggestivo, appare un po’ troppo semplicistico attribuire la crisi attuale del S.S.N. alla predominanza politica della destra, e a questo proposito, basti pensare che anche la regione Emilia-Romagna (regione da sempre a guida politica di sinistra) era pronta a firmare un accordo con il Governo per l’autonomia differenziata in sanità, prima che la Corte Costituzionale bloccasse la legge. Altro elemento su cui doverosamente riflettere per sostenere i limiti dell’analisi di Rosy Bindi viene dalla considerazione che sia la riforma del 1978 che la riforma del 1999 (quelle targate centro-sinistra per intenderci) non hanno mai trovato una piena applicazione, neanche dai governi e dalle amministrazioni locali più vicine a quella parte politica. La riforma del 1978 aveva di fatto prodotto una occupazione militare della sanità pubblica da parte dei partiti politici con squilibri macroscopici e un crescente deficit nell’ambito dei bilanci sanitari, tanto che le successive riforme del 1992-93 vennero rappresentate come il tentativo di introdurre elementi di tipo aziendalistico per rendere più efficiente il governo delle aziende sanitarie (non più unità sanitarie locali). Anche la riforma del 1999 ha avuto una applicazione molto parziale nelle regioni, soprattutto perché molte di esse (tutte quelle del centro-sud più il Piemonte) sono entrate in piano di rientro a causa dei loro deficit sanitari perdendo così loro autonomia nella programmazione sanitaria.

Su questo punto, probabilmente, l’analisi di Rosy Bindi merita di essere portata a compimento a patto di riuscire superare la visione novecentesca che ancora la pervade, ovvero la tesi che il S.S.N. sia vittima del   conflitto tra destra e sinistra in cui la destra prevale, anche perché quando è prevalsa la sinistra la sanità immaginata da Bindi è rimasta un utopia.

E’ necessario dunque andare oltre l’utopia e misurarsi con quello che è il problema principale, a mio avviso, della sanità italiana, ovvero riuscire ad affermare un nuovo modello di governance Stato-Regioni più basato sulla valutazione tecnico-sanitaria che meramente economico-finanziaria, rafforzando il ruolo di programmazione, indirizzo e controllo da parte del Ministero della Salute con i suoi organi tecnici a garanzia della salute degli italiani. Occorre superare la logica prettamente economicistica dei piani di rientro delle regioni in deficit sanitario, tenendo presente che questi, se da una parte hanno prodotto risultati finanziari virtuosi, dall’altra hanno compromesso a volte in maniera grave la fruizione dei servizi nei territori andando ad agire con l’accetta in situazioni già molto compromesse.

Per questo serve la ripresa di una iniziativa politica e parlamentare capace di portare il dibattito sulla sanità italiana verso una ricomposizione e un punto di incontro tra il conflitto verticale in atto tra Stato e Regioni e il conflitto orizzontale in atto tra i diversi orientamenti politici. In tutto questo, il contributo di personalità che hanno fatto la storia della sanità italiana come Rosy Bindi, resta fondamentale. 

Posted in Servizio sanitario