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Taranto e l’acciaio. Segnali dall’Ucraina

22 Marzo 2022

Fra le drammatiche conseguenze dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, spiccano i bombardamenti che hanno causato la distruzione della acciaieria della città martire di Mariupol, uno dei maggiori impianti produttori di acciaio in tutta Europa.  Questa situazione, al netto del suo significato strategico e militare, determina una grave crisi su scala europea della disponibilità di una delle principali materie necessarie al sostegno dell’apparato industriale come l’acciaio e rappresenta una ulteriore incognita per lo sviluppo economico degli Stati, specie di quelli meno autonomi per l’approvvigionamento di materie prime, tra cui l’Italia.

Il nostro Paese dovrebbe quindi cogliere questa occasione per rilanciare un asset industriale fondamentale come l’acciaio e fare riflessioni di carattere strategico, e non più emergenziale, su alcune questioni come, ad esempio, la sorte del sito industriale di Taranto e le connesse problematiche relative all’inquinamento ambientale e alla tutela della salute in quell’area. Si tratta di una questione non rinviabile per tanti motivi, a cominciare dal ruolo che lo Stato ha assunto nella compagine societaria con l’ingresso di Invitalia, Agenzia di proprietà del ministero dell’Economia per l’attrazione di investimenti, in quella che a tutti gli effetti è una partnership pubblico-privata e che ha condotto di fatto alla nascita di Acciaierie d’Italia, principale società controllata operativa di Arcelor Mittal Italia, attuale gestore del centro siderurgico tarantino. 

Lo Stato non può dire che la questione non lo riguarda, soprattutto in un periodo storico nel quale l’Unione europea sembra molto più tollerante rispetto alle regole che presidiano i cosiddetti aiuti di Stato. Il secondo motivo per cui urge una riflessione strategica è legato alla opportunità di rilanciare il sito produttivo tarantino per calmierare la carenza dell’acciaio su scala internazionale, recuperando spazi di mercato con il conseguente rilancio occupazionale a fronte della prevista cassa integrazione per circa 2.500 lavoratori di Taranto dal prossimo 28 marzo. Si dirà: la cassa integrazione è necessaria per compensare la minore produttività dovuta al rifacimento dell’altoforno 5 e ad altre attività finalizzate ad investimenti tecnici e miglioramento della qualità, oltre che a adeguamenti in senso ambientale, per cui si rende necessario il fermo degli impianti.

Non vi è dubbio che tali investimenti siano assolutamente necessari e attesi da tempo per migliorare gli standard impiantistici e ambientali dell’acciaieria tarantina, ma forse la nuova contingenza economico-produttiva internazionale esigerebbe una valutazione supplementare, al pari di quella che il ministro Cingolani ha sollecitato in merito all’uso del carbone per fare fronte alla gravissima carenza di fonti energetiche conseguente alle sanzioni commerciali imposte alla Russia.

So bene che non è comodo portare questi argomenti all’ordine del giorno, ma in questi giorni stiamo scoprendo come l’esserci rifugiati per anni nel politically correct ha portato il nostro Paese ad essere totalmente dipendente dalla Russia per le fonti energetiche, a rifiutare di ospitare impianti di rigassificazione metanifera, a congelare per sempre il dibattito sul nucleare pur acquistando energia elettrica prodotta da quella fonte, ed infine a non fare i conti una volte per tutte con l’emergenza ambientale tarantina.

A questo proposito, abbiamo visto negli ultimi anni tanti progetti tecnici ed istituzionali con significativi impegni di risorse, buoni però soprattutto come provvedimenti bandiera, a cui non ha ancora fatto seguito una azione costante e metodica in grado di assicurare una efficace e puntuale sorveglianza epidemiologica e clinica della popolazione tarantina a fronte delle evidenze di morbilità e di mortalità.

Oggi, la questione Taranto, da tempo in sordina, ritorna ad essere una questione nazionale che impone una assunzione di responsabilità supplementare per sciogliere i nodi storici che riguardano il rapporto tra l’industria, l’ambiente e la salute, con la consapevolezza che la città non può rinunciare al suo ruolo di leader dell’acciaieria nazionale ed europea.

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